Un gruppo di ricerca guidato dal Dott. Antonio Frontera, ricercatore del San Raffaele, rilancia l’ipotesi della relazione tra COVID-19 e inquinamento dell’aria in una comunicazione alla rivista scientifica journal of infections.
Da tempo la letteratura scientifica ci ricorda che esiste un forte legame tra patologie respiratorie di origine virale e inquinamento atmosferico. Polveri sottili (PM2,5 o OM10), biossido di zolfo (SO 2), biossido di azoto (NO 2), monossido di carbonio (CO) e ozono (O3) influiscono sulle vie respiratorie e aggravano la suscettibilità e la gravità delle infezioni da virus respiratori. Le particelle fini, come il PM2.5, tendono a rimanere più a lungo nell’aria e le loro dimensioni aumentano le possibilità di farle penetrare in profondità nei polmoni. Ciò porta un’infiammazione progressiva e cronica delle vie respiratorie che, in caso di esposizione prolungata ad un’aria inquinata, può portare a gravi malattie respiratorie da infezioni virali.
Fino ad oggi le aree più colpite dall’infezione COVID-19 sono tutte caratterizzate da elevatissimi livelli di inquinamento dell’aria.
Come testimonino i dati elaborati dall’ISS, le regioni della Pianura Padana (Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto) contano ben l’84,7% dei morti totali positivi al COVID-19. In particolare, i decessi si sono concentrati in città come Lodi, Cremona e Bergamo, tra le cinque città italiane con i più alti livelli di inquinamento, e site in un’area caratterizzate da elevata densità di attività industriali, traffico, agricoltura e allevamento intensivi.
Nei mesi di dicembre e gennaio dello scorso anno (2019), le concentrazioni di PM 2,5 hanno raggiunto in Pianura Padana valori senza precedenti, simili a quelli che caratterizzano la regione di Hubei, in Cina, dove è stato registrato il primo picco di infezione da COVID-19.
Per gli autori l’elevata mortalità delle aree del nord Italia può essere legata all’elevato inquinamento e al suo ristagno a causa delle condizioni climatiche e topografiche della regione. La Pianura Padana è infatti circondata dalle Alpi, ha venti deboli e frequenti episodi di inversione termica. Tutti fattori che limitano la circolazione dell’aria e favoriscono l’accumulo degli inquinanti.
Queste particolari condizioni avrebbero garantito una maggiore persistenza del virus nell’aria consentendogli di diffondersi più facilmente. L’inquinamento avrebbe quindi favorito una diffusione “indiretta” che si è sommata a quella diretta, cioè al contagio da individuo a individuo.
Questo spiegherebbe anche come mai il virus non si sia diffuso con la stessa virulenza in altre aree caratterizzate da elevato inquinamento dell’aria, come ad esempio Taranto.
Se confermata, questa ipotesi potrebbe garantire un maggiore livello di controllo dell’infezione da COVID-19 attraverso il monitoraggio delle concentrazioni di inquinanti e dei fenomeni meteorologici che favoriscono il ristagno.
Leggi QUI la lettera pubblicata su Journal of Infections