Il lavoro della SIMA, pubblicato qualche giorno fa, ha dimostrato la presenza del coronavirus in campioni di particolato raccolti nella zona industriale di Bergamo. Questi risultati preliminari hanno scatenato un grande dibattito. Non tanto per le loro possibili implicazioni ma per la modalità con cui sono state riferite dalla stampa.
Nei giorni scorsi molti divulgatori, blogger e debunker di professione hanno fatto a gara nell’evidenziare quanto fosse scorretto definire “ufficiali” i risultati della SIMA. Il lavoro è infatti un preprint, cioè non ha ancora ultimato il percorso di revisione da parte di altri ricercatori (peer review) previsto per la pubblicazione su riviste scientifiche. Inoltre, si tratta di risultati preliminari: la presenza del virus nel particolato non direbbe nulla sulla sua effettiva contagiosità e quindi sul suo possibile contributo a diffondere il virus. Di qui le critiche: non si potrebbe dire nulla di conclusivo per affermare il ruolo del particolato come veicolo (carrier) del virus.
E su questo non si può che concordare. Ma siamo sicuri che sia questo il punto della questione?
In questi mesi ci sono stati diversi lavori scientifici che hanno cercato di verificare l’ipotesi che l’inquinamento atmosferico possa essere una concausa della elevata letalità del coronavirus.
In molti casi sono lavori preprint o articoli nella forma di letter to editor con la finalità più di descrivere e discutere la validità scientifica dell’ipotesi da dimostrare con successivi studi più approfonditi.
La motivazione del perché questi lavori vengono comunque resi pubblici e largamente diffusi è piuttosto evidente: siamo nel mezzo di una crisi epidemica e l’efficacia delle misure per contrastarla dipendono dalla capacità di interpretarne cause e concause nel modo più completo ed attendibile possibile.
La SIMA si pone infatti una domanda importante: come mai 80% dei morti e 65% dei ricoveri in terapia intensiva sono in pianura padana?
Ad oltre un mese e più dal primo position paper SIMA, ben poco si è mosso. I fattori ambientali sono perlopiù ignorati dai media mainstream e dalle strategie per fronteggiare la crisi.
Eppure, lo studio preprint di Harvard sostiene che un aumento dell’esposizione a lungo termine al particolato fine (PM2.5) porta a un aumento significativo del tasso di mortalità da coronavirus. Un incremento di solo 1 µg / m3 nel PM2.5 è associato ad un aumento del 15% di mortalità COVID-19.
Il paper (questa volta pubblicato) dell’università di Århus sostiene che l’elevato livello di inquinamento nel nord Italia dovrebbe essere considerato un ulteriore cofattore dell’alto livello di mortalità registrato in quella zona.
In ultimo la letter to the editor del San Raffaele ha rilanciato l’ipotesi del particolato come carrier auspicando ulteriori studi di approfondimento e citando una recente pubblicazione sulla rivista The New England Journal of Medicine che testimoniava la plausibilità della trasmissione del virus via aerosol.
A questo si aggiungono le tante evidenze di letteratura scientifica citate dallo studio di ARPA e che testimoniano il ruolo di amplificazione degli effetti delle infezioni (booster) attribuito al particolato definendolo un possibile cofattore nel sostenere il processo di infiammazione indotto dal virus. Gli studi di popolazione citati evidenziano infatti come il particolato porti ad infiammazioni sistemiche e come l’infezione da SARS-CoV-2 induca il richiamo di numerose molecole del sistema immunitario contribuendo allo stato infiammatorio compromesso dei pazienti.
Nello stesso studio si afferma però la mancanza di letteratura scientifica a sostegno dell’ipotesi del particolato come carrier (definita “lacunosa”) e di lavori scientifici che dimostrino la presenza su campioni di particolato atmosferico di SARS-CoV-2 o di altri tipi di coronavirus. Una mancanza a cui dovrebbe rispondere, seppure in maniera parziale e preliminare, lo studio di SIMA. Vengono citati però diversi studi che hanno trovato riscontri sperimentali o associazioni statistiche tra concentrazioni di particolato ambientale e diffusione di virus influenzali e il ruolo del particolato nella trasmissione di virus nelle epidemie influenzali di animali.
In conclusione, l’ipotesi che il particolato agisca come vettore (carrier) oltre che booster ha certamente bisogno di maggiori approfondimenti. Questa ipotesi è stata ad oggi poco investigata e lo studio della SIMA è un lodevole, quanto isolato, tentativo di confermare (o escludere) la presenza del virus nel particolato e il suo ruolo nella diffusione del contagio.
Va ricordato però che l’Italia detiene il record negativo in Europa per morti premature da biossido di azoto e ozono e il secondo posto per il particolato fine (PM2,5) con 58600 morti premature.
Che il particolato sia un vettore (carrier), una concausa nel processo di infiammazione (booster) o entrambe le cose, un approccio basato sul principio di precauzione suggerirebbe di prendere in considerazione con maggiore serietà i fattori ambientali.
Mantenere basse le emissioni di particolato e degli altri inquinanti per non rischiare di spianare la strada a nuovi picchi di infezione da coronavirus è una richiesta più che sensata.
Anche perché il grande rischio a cui andiamo incontro è quello che la gestione dell’emergenza e la crisi economica post COVID-19 finiscano per mettere da parte la tutela dell’ambiente sacrificandola sull’altare della ripresa economica. Proprio come sta avvenendo negli Stati Uniti.
Un esempio per il nostro Paese sono i rumors provenienti dal Ministero dei Trasporti secondo cui si vorrebbe annullare il vincolo previsto dal Piano Strategico Nazionale per la Mobilità sostenibile, lasciando di fatto liberi gli operatori di scegliere qualsiasi motorizzazione per le flotte bus, anche quelle più inquinanti. Questo per poter acquistare con urgenza nuovi mezzi per far fronte alle precauzioni anti-contagio. E, dato che un bus ha una vita media di 12 anni, questo vorrebbe dire perdere una buona occasione per contribuire a ridurre le emissioni inquinanti.