Il 20 luglio 2015, il Parlamento italiano si è occupato finalmente di cambiamenti climatici. Può sembrare strano, lo so, ma anche la politica italiana sa che a Parigi questo dicembre ci sarà un appuntamento molto importante: la 21esima conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la COP21. Nel mio intervento, che potete rivedere qui integralmente, ho parlato di ciò che, a causa del cambiamento climatico, minaccia l’Italia e l’umanità nel suo complesso.
Devo dire la verità: gli interventi di alcuni colleghi, anche appartenenti a partiti votati ai profitti dei petrolieri e alle trivelle come il PD, mi sono piaciuti. Ed è stata per me una soddisfazione poter vedere dedicare finalmente del tempo a un tema di così cruciale importanza per il futuro della vita umana sulla Terra. Anche se non ho molta fiducia nel contributo che il governo italiano darà all’evento parigino di fine anno.
Mi viene in mente una parola: realpolitik. E’ vero, il governo di Matteo Renzi, al momento, a livello internazionale non conta praticamente nulla. Lo abbiamo visto in diversi casi. Allo stesso modo, le emissioni di gas serra del nostro Paese, rispetto a quelle globali o di altre nazioni ben più grandi della nostra, sono solo una piccola percentuale. Perché, quindi, dovremmo impegnarci per ridurle? Perché siamo qui ancora a proporre soluzioni concrete al cambiamento climatico, invece che andarcene al mare?
Da una parte, perché il clima è un bene comune, e anche la più piccola azione si somma a tutte le altre. Il cambiamento parte dal basso, dagli stili di vita, e i grandi processi globali sono la somma dei nostri gesti quotidiani. Non ha quindi senso, oltre a non essere giusto, pensare di potere scaricare la propria responsabilità sul fatto che la mia azione individuale è irrilevante, nel quadro generale.
Dall’altra, perché combattere il climate change ha ripercussioni positive anche a livello locale (e quindi sulla vita del singolo individuo): significa infatti lavorare per preservare la salute dei cittadini, evitare le enormi perdite economiche che si rischiano (soprattutto a livello agricolo), ridurre i rischi di devastazioni che, anche solo a livello infrastrutturale, costano alla collettività miliardi di euro ogni anno.
“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, diceva Gandhi. Bene, il clima impazzito ci dà modo di mettere in pratica questa massima, così vera e utile nella sua semplicità.
Perché non c’è più tempo, non facciamocelo ripetere ancora. Siamo arrivati al limite, e in parte abbiamo già messo un piede al di là dello stesso. Non lo vedete? Non vedete quanto, anche nel nostro piccolo, stiamo già subendo gli effetti di fenomeni atmosferici estremizzati, o quanto le migrazioni di massa da Paesi ancora più colpiti del nostro dal caos climatico stiano scombussolando interi sistemi sociali, creando conflitti e dando spazio a ideologie ottuse ed estremiste?
Cosa deve succedere prima che ci si possa smuovere dal nostro torpore, dai nostri piccoli o grandi interessi materiali, dai nostri privilegi illusori? Cosa ci deve capitare per svegliarci dal sogno di un mondo in cui le azioni non hanno conseguenze? Cosa ci può dimostrare, più di questa irrisolvibile crisi sistemica, per capire che il futuro non sta nella crescita del PIL o nello sfruttamento di risorse e combustibili fossili in rapido esaurimento, ma nelle opportunità offerte dall’efficienza e da una (vera) green economy?
Dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Adesso, prima di essere sopraffatti dal cambiamento che è comunque già in corso!
Tutte le nazioni e tutti gli abitanti della terra sono connessi da un filo sottile, e fragile. Le nostre piccole azioni si sommano a quelle degli altri, nessuno può chiamarsi fuori da questa partita.
A Parigi, dove andrò, dobbiamo puntare ad ottenere un accordo che non sia solo una bandierina da sventolare per le aree pseudo-ambientaliste dentro alla maggioranza di governo.
Dobbiamo puntare a un accordo che possa davvero mantenere la variabilità del clima all’interno di valori accettabili (1,5 gradi) per minimizzare i rischi di disastri climatici e salvaguardare la salute dei cittadini di tutto il mondo.
Ma ripeto, e non mi stancherò mai di farlo, dobbiamo fare anche la cosa più difficile: cambiare noi stessi, i nostri stili di vita, il nostro modo di pensare la società.
L’Italia ha tutte le carte in regola per essere un faro in Europa e nel mondo. Nel realizzare una politica economica e industriale intelligente e come tale capace di guardare al futuro rapportandosi con le risorse del pianeta in maniera sostenibile.
Perché come diceva Einstein: “Non si può risolvere un problema usando la stessa mentalità che lo ha creato.”