Come possiamo pretendere che stiano a casa loro se casa loro gliela distruggiamo? Se gli togliamo la possibilità di mangiare, respirare, crescere i propri figli e vivere dignitosamente?
Non solo guerre, bombe e terrorismo, l’immigrazione è figlia anche dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali causati da comportamenti scellerati da parte di compagnie occidentali sostenute anche dai nostri soldi. Come nel caso della diga Gibe III costruita sul fiume Omo in Etiopia da un’impresa italiana, la Salini Impregilo.
L’impresa milanese, che si è aggiudicata il lavoro senza gara d’appalto, violando le leggi dello stato etiope è supportata dal programma per la Promozione dei servizi di base (Pbs) finanziato dal Dag (Development assistance group) di cui fanno 26 istituzioni tra cui le agenzie per lo sviluppo dell’Italia, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e del Regno Unito, e la Banca mondiale.
Ma vediamo di cosa si tratta e cosa lo Stato italiano sta finanziando anche attraverso le tasse pagate dai cittadini.
Gibe III è una delle dighe più grandi dell’Africa costruita per interrompere il corso del fiume Omo in Etiopia, che rappresenta il 90 per cento degli affluenti del lago Turkana in Kenya, il lago in una zona desertica più grande al mondo.
Il problema è che nella bassa valle dell’Omo, attorno al lago Turkana, vivono 260mila indigeni: piccoli agricoltori, cacciatori-raccoglitori e pastori che sopravvivono grazie alle inondazioni stagionali. Fino ad ora. Perché con la diga il ciclo naturale di inondazioni verrà interrotto e il lago svuotato, rendendo impossibile per loro coltivare terra e allevare bestiame. Vivere, insomma.
Ma a cosa serve questa diga costata più di un milione e mezzo di euro? Ovviamente per deviare le acque e destinarle all’irrigazione di 445mila ettari di piantagioni, destinate principalmente alla coltivazione intensiva di canna da zucchero e all’esportazione di energia idroelettrica.
A nulla sono servite le lotte delle popolazioni locali. L’esercito etiope ha sfrattato con la violenza e ucciso molti degli indigeni del luogo. Anche per questo, l’ong Survival, che si occupa di tutelare i diritti delle popolazioni indigene di tutto il mondo, ha recentemente presentato un’istanza all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per denunciare le azioni della Salini nella valle dell’Omo.
L’Italia invece che fa? Elogia il lavoro della ditta milanese e chiude gli occhi su un’autentica catastrofe umanitaria e ambientale. Durante la visita al cantiere della diga nel luglio 2015 il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha addirittura affermato che la società che se ne sta occupando è “una delle aziende più forti al mondo per le infrastrutture, la numero uno per le dighe; capace di innovare, di costruire, di seminare pezzi di futuro. Siamo orgogliosi di voi, di quello che fate e di come lo fate”.
Gli rispondo con le parole del direttore generale dell’ong Stephen Corry: “derubare della loro terra popoli largamente autosufficienti e causare ingenti devastazioni ambientali non è ‘progresso’: per i popoli indigeni è una sentenza di morte”.
Del resto, come denuncia un membro del governo locale della contea Turkana in Kenya “non si può mangiare elettricità. Abbiamo bisogno di cibo e di reddito”. Come dargli torto?
Per approfondire ecco alcuni estratti del rapporto stilato dopo una missione dei principali donatori di aiuti all’Etiopia (DAG) nella valle dell’Omo, nell’agosto 2014.