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Dopo il primo studio rilasciato dalla SIMA, sono stati diverse le pubblicazioni e i report che hanno prima suggerito e poi sempre più comprovato l’ipotesi di uno stretto rapporto tra particolato atmosferico e i drammatici effetti del coronavirus COVID-19. Allo studio dell’università di Harvard e alla pubblicazione dei ricercatori del San Raffaele di qualche giorno fà, oggi si aggiunge un tassello importantissimo a supporto della tesi che vede imputato l’inquinamento da particolato.


L’inquinamento da particolato (PM2.5 in particolare) agisce da facilitatore di questa epidemia in due modi: in modo diretto, danneggiando la salute, e indiretto, agendo da veicolo (carrier) del virus.

L’effetto diretto è conosciuto ed è notoriamente una importante causa di morti premature che vede il nostro paese in cima alle classifiche Europee. È noto che l’inquinamento atmosferico in Italia, prevalentemente concentrato nelle zone più colpite da COVID-19, è causa di circa 80.000 decessi annui a fronte di patologie respiratorie e cardiovascolari indotte dalla presenza di inquinanti come gli ossidi di azoto, l’ozono ed il particolato.

L’effetto indiretto è invece la partecipazione del particolato come vettore (carrier) del virus. Questa ipotesi, bollata da alcuni come priva di alcuna plausibilità biologica, è in realtà oggetto di studio. Una recente pubblicazione sulla rivista The New England Journal of Medicine ha concluso che “la trasmissione via aerosol e superfici contaminate di SARS-CoV-2 è plausibile poiché il virus può rimanere vitale e infettivo per ore negli aerosol e per giorni sulle superfici”.

Oggi arriva una conferma importante di questa ipotesi da parte della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) che annuncia di aver trovato il coronavirus SARS-Cov-2 nel particolato.

Il professor Alessandro Miani, presidente della Sima, afferma che sono stati analizzati 34 campioni di particolato (PM10) prelevato da siti industriali della provincia di Bergamo con due diversi campionatori d’aria per un periodo continuativo di 3 settimane, dal 21 febbraio al 13 marzo. Nei campioni si è verificata la presenza del virus in almeno 8 delle 22 giornate prese in esame. I risultati positivi sono stati confermati su 12 diversi campioni.

Questi primi risultati suggeriscono che, in condizioni di stabilità atmosferica ed alte concentrazioni di particolato, quali quelle tipiche delle regioni più colpite dal virus, le micro-goccioline infettate contenenti il coronavirus SARS-CoV-2 possono stabilizzarsi sul particolato creando degli agglomerati (cluster) e aumentare quindi la persistenza del virus nell’atmosfera come già ipotizzato sulla base di recenti ricerche internazionali. Con l’aria inquinata, quindi, le goccioline di saliva potenzialmente infette possono raggiungere distanze anche di 7 o 10 metri facilitando il contagio.

I risultati di questo studio ci offrono informazioni cruciali per ridurre i rischi di contagio nell’imminente fase due, ma anche nelle probabili prossime ondate stagionali di questo virus.

Per prima cosa, cosi come suggerito dal Dott. Frontera nella sua pubblicazione, si potrà usare il livello di inquinamento (unito alle condizioni meterologiche che possono favorire o meno l’accumulo degli inquinanti) come misura per stimare il numero di contagi. In pratica il livello delle polveri sottili potrebbe diventare una delle misure del rischio di contagio e quindi far scattare raccomandazioni (o obblighi) di adottare misure di precauzione. Per esempio indossare mascherine protettive e/o limitare le uscite per le persone più a rischio. Misure che peraltro dovrebbero essere consigliate anche in assenza del virus, visto il livello di inquinamento dell’aria e il numero di morti che ne consegue.

Inoltre diventa se possibile ancora più indispensabile che si tenga conto della necessità di mantenere basse le emissioni di particolato e degli altri inquinanti per non rischiare di favorire la potenziale diffusione del coronavirus.

Quest’ultimo aspetto ha implicazioni importantissime, soprattuto in un’area, come la pianura Padana, in cui le particolari condizioni geografiche e climatiche creano facilmente le condizioni per il ristagno delle sostanzi inquinanti.

Certamente è una “chiamata alle armi” affinché sia portata avanti con maggiore impegno la decarbonizzazione dei trasporti. Auto, van e autobus elettrici sono già oggi una realtà con costi di acquisto ancora alti ma costi totali (TCO – costi totali di manutenzione, tasse e spese varie) che in molti casi sono uguali (o minori) dei corrispettivi fossili. Importante anche ridurre l’inquinamento dovuto al riscaldamento rilanciando nuovi piani per incentivare l’efficienza energetica e l’isolamento termico degli edifici.

E poi, “dulcis in fundo”, questa emergenza deve porre fine alla polemica antistorica, oltre che antiscientifica, che vede in questi giorni sotto pesante attacco chi parla degli effetti su inquinamento e salute di agricoltura e allevamento intesivi.

Nelle 4 regioni della pianura Padana si concentra oltre l’85% di tutti i suini allevati in Italia, e oltre i 2/3 di tutti i bovini nazionali. Una densità di animali allevati che ha pochi eguali in Europa e che rappresenta l’equivalente in peso di 50 milioni di esseri umani. Le deiezioni degli animali allevati vengono principalmente sparse sui campi: una pratica all’origine delle emissioni di ammoniaca, gas che si combina con gli ossidi di azoto per formare sali d’ammonio, che compongono fino al 50% del particolato sottile per cui l’Italia è sotto procedura d’infrazione europea.


Link al paper in preprint della SIMA


EDIT: Nei giorni scorsi molti divulgatori, blogger e debunker di professione hanno fatto a gara nell’evidenziare la scorrettezza di definire “ufficiali” gli ultimi risultati della SIMA.

Siamo sicuri che sia questo il punto della questione?

Che il particolato sia un vettore (carrier), una concausa nel processo di infiammazione (booster) o entrambe le cose, il principio di precauzione suggerirebbe di prendere in considerazione con maggiore serietà i fattori ambientali.

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