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Rispetto e responsabilità, integrità e sobrietà, lealtà e fiducia, passione per la ricerca e innovazione, sono queste le caratteristiche che elencate nel vostro codice etico per raccontare il lavoro di un’azienda simbolo dell’eccellenza italiana nel mondo. E a queste mi appello per chiedervi un passo avanti su un tema di grande importanza: l’olio di palma e le conseguenze della sua produzione e del suo consumo.
Sorprende che un’azienda che parla di innovazione e pensiero creativo come fonte primaria del proprio vantaggio competitivo, si fossilizzi su pratiche superate – quali l’utilizzo dell’olio di palma – affossate in primis proprio dal mercato e dai consumatori. Molti dei marchi a voi concorrenti lo stanno dimostrando: cambiare si può. Si possono modificare le ricette e sostituire l’olio di palma, magari utilizzando prodotti italiani, di qualità, e in grado di favorire le economie locali. E si può fare in tempi brevi e senza mutare le peculiarità dei prodotti, anzi: migliorandone le caratteristiche.
Però voi e poche altre multinazionali dell’alimentare vi ostinate a voler bloccare un treno ormai già partito, e lo fate investendo risorse in pubblicità e strategie di marketing non più credibili.
Mi chiedo in nome di cosa. Verrebbe da pensare al mero guadagno economico data la convenienza che l’utilizzo dell’olio di palma garantisce ai produttori. Ma un’azienda con la vostra storia, che da sempre dichiara di mettere al centro del proprio modo di operare la tutela della salute umana e il rispetto dell’ambiente, può forse basarsi solo su questo? Voglio sperare di no.
E allora perché continuare ad accanirsi in questo modo? Ve lo chiedo sinceramente perché reputo l’olio di palma una delle questioni cruciali di un’industria alimentare che sta contribuendo in maniera significativa alla distruzione del nostro pianeta e della nostra salute, ma che allo stesso tempo potrebbe essere il volano per un reale e concreto cambiamento in positivo, invece che l’ennesima soluzione alla meno peggio. Secondo il World Wide Fund for Nature ogni ora viene distrutto l’equivalente di 300 campi da calcio di foresta pluviale per far spazio alle piantagioni di olio di palma. Con tutto ciò che ne consegue: deforestazione, distruzione degli ecosistemi e della biodiversità, erosione dei suoli, contaminazione delle acque, perdita dell’habitat naturale di specie in via d’estinzione, danni alle comunità locali, aumento delle emissioni di CO2 ed ennesimo restringimento degli ultimi polmoni verdi del mondo. A causa di questa scellerata produzione Paesi neanche lontanamente industrializzati come l’Indonesia hanno conquistato in pochi anni il podio nella classifica dei maggiori inquinatori al mondo, raggiungendo i livelli di Cina e Stati Uniti per emissione di gas serra.

La situazione è ormai fuori controllo e non sarà certo qualche certificazione di sostenibilità, dietro cui nascondere realtà che tutto sono fuorché sostenibili, a fermare tutto questo. Lo sapete benissimo pure voi.Dal 2004 le aziende produttrici e importatrici di olio di palma (Ferrero compresa) si barricano dietro alla Roundtable on Sustainable Palm Oil, un ente certificatore che non solo non si è mai dimostrato in grado di garantire una produzione veramente responsabile o un reale controllo sull’intera filiera, ma che da quando esiste non è riuscito nemmeno a ottenere una minima riduzione del tasso di deforestazione. Anzi, le foreste bruciano sempre di più.

In soli dieci anni l’Indonesia ha perso 6 milioni di ettari di foresta tropicale, un’area grande quanto l’intera Irlanda. E tra le cause di questo disastro vi sono anche (e soprattutto) le società appartenenti al gruppo RSPO, come la malese IOI Group, addirittura tra le fondatrici dell’ente certificatore e recentemente accusata da Greenpeace di distruzione delle foreste tropicali e delle torbiere, violazione dei diritti umani delle popolazioni locali, sfruttamento dei lavoratori e utilizzo del lavoro minorile.

Ma non c’è da stupirsi, sarebbe sorprendente il contrario. Non raccontiamoci frottole: già in Italia il controllo della filiera è un’impresa titanica, figuriamoci farlo in Paesi, come l’Indonesia, in cui il tasso di corruzione è addirittura maggiore a quello dell’Italia (basti pensare che nella classifica dell’Indice di percezione della corruzione pubblicato da Transparency International l’Indonesia si piazza all’88esimo posto su 178 Paesi) e in cui è praticamente impossibile la tracciabilità, non essendoci leggi che obblighino le autorità a redigere registri e a realizzare mappature aggiornate dei cambiamenti di uso del suolo.

In ogni caso, anche ammettendo che inventiate nuove certificazioni, che siate in grado di garantire trasparenza e legalità in Paesi in cui una verifica effettiva appare irrealizzabile; che siate in grado di assicurare controlli puntuali lungo tutta la filiera produttiva; che i vostri processi di  produzione non contribuiscano alla deforestazione, allo sfruttamento e alla violazione dei diritti umani; anche ammettendo tutto ciò, l’olio di palma rimane comunque insostenibile per la salute. In special modo per la salute dei bambini, i principali consumatori dei vostri prodotti.

Sono loro, infatti, le prime vittime di una sostanza che è stata ripetutamente accusata di avere effetti significativi sull’aumento di colesterolo, sul rischio cardiovascolare e sulle coronaropatie da autorevoli fonti quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Center for Science in the Public Interest, la statunitense American Heart Association, l’Agenzia francese per la sicurezza alimentare, il Consiglio Superiore della Salute del Belgio.
Anche gli altri oli vegetali, mi direte, presentano rischi legati alla presenza di grassi saturi, ma l’olio di palma tra tutti rimane il peggiore: con il suo 52% di grassi saturi si piazza secondo solo all’olio di cocco, subito dietro al burro (66%), quantità di molto superiori agli altri oli vegetali, come per esempio l’olio di oliva (che non supera il 15%) o di girasole (11%).

Non dimentichiamo inoltre che l’indice di aterogenicità (rischio di insorgenza di aterosclerosi) dell’olio di palma è di 0.90, tre volte superiore al valore accettato come innocuo per la salute umana (max 0.31) e che il suo indicatore di trombogenicità (rischio trombotico) è risultato essere 1.63, valore nettamente superiore al massimo consentito di 0.57.

A questi dati già significativi il 3 maggio scorso si è aggiunto il report dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) che, valutando i rischi per la salute pubblica derivanti dalle sostanze glicidil esteri degli acidi grassi (GE), 3-monocloropropandiolo (3-MCPD), e 2-monocloropropandiolo (2-MCPD), ha messo in guardia i consumatori sulla presenza di questi contaminanti alimentari tossici nell’olio di palma (contenuti dalle 6 alle 10 volte di più che negli altri oli vegetali).
In particolare il GE, per cui ci sono dati scientifici così evidenti rispetto la sua genotossicità e cancerogenicità che il gruppo CONTAM (gruppo di esperti scientifici dell’EFSA sui contaminanti nella catena alimentare) non ne ha potuto stabilire alcuna soglia di sicurezza.
Il parere dell’Autorità non è che l’ultimo di un lungo elenco di indagini giunte alle medesime conclusioni, tra queste: l’Università di Praga, il Centro per la sicurezza alimentare di Stoccarda (CVUA), l’Autorità tedesca per la sicurezza alimentare, l’International Life Sciences Institute di Bruxelles (Ilsi).

Mi domando quindi se sia così indispensabile utilizzare questa sostanza (anche in grandi quantità, come nel caso della Nutella che contiene quasi il 20% di olio di palma e solo un 13% di nocciole) o se forse – ma potrebbe essere un azzardo – si potrebbe provare a mettere all’interno della vostra crema alle nocciole, per esempio, le nocciole.
Non si tratta che di un’idea, certo. Ma, una volta, un certo Ferrero ha detto: Le buone idee conquistano il mondo. E se la vostra azienda dopo aver conquistato il mondo con i suoi prodotti, ora desse una mano a salvarlo? Sarebbe, di certo, una buona idea.
#FerreroRipensaci 
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