Avete mai sentito parlare di Geoingegneria?
La geoingegneria non è altro che l’ingegneria climatica, ovvero la scienza che studia come modificare il clima su larga scala per tentare di sottrarsi alle conseguenze del cambiamento climatico.
Secondo gli scienziati dell’IPCC il riscaldamento globale è infatti ormai incontrovertibile e il fattore predominante che lo sta causando è l’azione umana.
Le temperature sono aumentate e continueranno a farlo a causa delle nostre emissioni di gas serra, cresciute a dismisura da quando siamo entrati nell’era industriale alimentata dalle fonti energetiche fossili.
Ormai l’obiettivo dei negoziati internazionali sul clima è solo quello di limitare i danni, cercando di mantenere l’aumento della temperatura terrestre entro i 2 °C (anche se potrebbero essere già troppi).
Gli altri effetti del cambiamento climatico li abbiamo sentiti descrivere spesso: vanno dall’aumento degli eventi meteorologici estremi (alluvioni, nubifragi, tempeste, intense ondate di freddo e di caldo, siccità) all’innalzamento del livello dei mari, fino all’arrivo di nuove malattie infettive.
La soluzione è tanto semplice quanto allo stesso tempo critica: cambiare radicalmente il nostro sistema produttivo. E per farlo, probabilmente, cambiare anche il credo dominante del nostro secolo: il paradigma della crescita economica infinita e il dogma del libero mercato.
Non a caso la storia dei trattati internazionali per ridurre le emissioni di gas serra è stata finora alquanto fallimentare…
Ecco che allora si cercano vie alternative…. la geoingegneria!
Ovvero, in una frase, “business as usual”, continuare a fare affari come se nulla fosse. Bruciare quel che resta dei combustibili fossili e, magari, passare gradualmente ad altre fonti sempre pericolose e inquinanti ma che emettano teoricamente meno CO2 (metano, carbone “pulito” o nucleare!) cercando di mantenere nelle stesse mani le posizioni di potere.
Come fare però a tentare di schivare gli effetti negativi del cambiamento climatico?
La geoingegneria propone di usare metodi come lo spargimento di particelle di biossido di zolfo nell’atmosfera per riflettere la luce solare, oppure “fertilizzare” gli oceani con limatura di ferro per incoraggiare la crescita di alghe capaci di assorbire i gas serra. Oppure, ancora, spendere quantitativi enormi di energia per rimuovere la CO2 dall’atmosfera “sequestrandola” nelle profondità della terra.
Ovviamente gli effetti a lungo termine di queste tecnologie sono largamente sconosciuti e diversi esperti hanno mostrato preoccupazione sui loro rischi. Giusto un esempio: uno studio nel Journal of Geophysical Research, suggerisce che la geoingegneria ridurrebbe considerevolmente le precipitazioni, fino a impattare i raccolti e l’acqua potabile. Inoltre, queste tecnologie rimuoverebbero soltanto il sintomo della febbre climatica, senza intaccarne le cause; vale a dire la concentrazione di gas serra, che continuerebbe a crescere rendendoci sempre più dipendenti dagli interventi tecnologici di raffreddamento del pianeta.
La scorsa settimana, la National Academy of Sciences ha pubblicato un rapporto dove si citano i rischi e i limiti di queste tecnologie e si arriva alla seguente conclusione: “La riduzione delle emissioni è di gran lunga il modo migliore di affrontare il problema”. E ancora: “Gli effetti collaterali sono sconosciuti. La sperimentazione di alcuni paesi potrebbe avere effetti devastanti su altri paesi e sul sistema climatico globale”.
E poi c’è un rischio ulteriore, ancora più preoccupante.
Secondo le dichiarazioni di un illustre climatologo dell’IPCC, Alan Robock, la CIA, l’agenzia di spionaggio per l’estero degli Stati Uniti, starebbe finanziando gli studi sulla geoingegneria con la prospettiva di usare questa tecnologia per fini militari.
In quale senso ce lo può dire già ora la storia. Modificare il clima per mettere in difficoltà Paesi nemici causando danni e morti con alluvioni, come si fece in Vietnam, oppure distruggere i raccolti causando estreme siccità, come successo a Cuba. Per questo, l’uso del tempo come arma è stato vietato nel 1978 in base all’ENMOD (Environmental Modification Convention).
Insomma c’è da tenere alta la guardia. Anche perché, secondo l’American Association for the Advancement of Science, sarebbe ora di superare la fase sperimentale usando modelli matematici e passare invece a testare queste tecnologie “sul campo”, sulle nostre teste quindi.
Ammesso che, come sostengono alcuni, questo non avvenga di già…
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