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Quello che sta succedendo ad Haiti è terribile ma ancora una volta dare la colpa a una natura brutta è cattiva significa guardare al dito e non alla luna. Prendiamoci le nostre responsabilità e agiamo di conseguenza: l’uragano Matthew e gli oltre mille morti di Haiti non sono che l’ennesimo avvertimento che il nostro pianeta ci sta mandando per dirci di cambiare rotta.
Le catastrofi naturali quali inondazioni, tsunami, alluvioni, siccità e le loro conseguenze in termini di perdita di vite umane, insorgenza di epidemie, povertà, aumento della mortalità infantile e del numero di migranti ambientali non sono altro che l’effetto dei cambiamenti climatici di cui l’uomo è il primo responsabile.Già nel 2010 il centro studi Maplecroft posizionava Haiti al primo posto della classifica dei Paesi a maggior rischio per gli effetti del cambiamento climatico globale, Climate Change Vulnerability Index (CCVI), stilata in base alla vulnerabilità, alla capacità di adattarsi ai cambiamenti e all’esposizione della popolazione ai pericoli di inondazioni, carestie e altri fenomeni disastrosi. Rischio intrinsecamente collegato all’ampia deforestazione subìta dall’isola: oltre il 98 per cento della superficie forestale originale oggi è distrutta.

Le foreste, è bene ricordare, svolgono opere importanti per la sicurezza e il benessere di un territorio. Grazie a loro si consolida il terreno, si ricaricano le falde, si contrasta l’erosione dei suoli, si tutela la qualità dell’acqua e si assorbe quella in eccesso, si proteggere dal calore, si ha a disposizione cibo e combustibili. I Paesi in cui vengono a mancare queste aree verdi diventano più vulnerabili sia ai fenomeni climatici, sia ai disastri naturali.

I numeri riportati dl Global Forest Watch sono allarmanti: l’uomo ha depredato il pianeta del 30 per cento delle aree forestali e di quel che rimane solo il 15 per cento è ancora intatto.
E proprio a questi numeri è possibile collegare i maggiori disastri ambientali degli ultimi anni. Secondo la Mappa del Wwf gli episodi climatici più gravi sono strettamente collegati all’alto tasso di deforestazione dei paesi colpiti: dallo tsunami del 2004 a Sumatra, alle alluvioni in Bangladesh, dall’uragano Mitch del Centro America alle vittime della siccità in Asia.

E ancora: lo tsunami del 2006 in una Thailandia che dal 1970 ad oggi ha perso un terzo della propria superficie di mangrovie; il tremendo terremoto che ha colpito il Nepal l’anno scorso, Nepal che ha perso solo nel periodo 1990-2010 quasi un quarto delle sue foreste (24,5%).

Anche la Cina alla fine degli anni ‘90 aveva perso l’80% delle foreste originarie e questo portò a siccità, desertificazione, alluvioni ed esondazioni, come quella dello Yangtze nel 1998 che produsse 4100 vittime e quasi 14 milioni di sfollati (fonte: Wwf).

L’Indonesia, terra devastata dalla più veloce e intensa deforestazione per lo più per far spazio a piantagioni di palme da olio: nel solo periodo 2000-2012 questo Paese ha perso ben 6 milioni di ettari di foresta naturali – una superficie grande quanto metà Inghilterra – ottenendo il triste primato della deforestazione, superando, proprio nel 2012, il ben più grande e martoriato Brasile.

Anche l’Africa non se la cava bene: la deforestazione ha fatto sparire un quinto delle foreste del Malawi in 20 anni. La culla della biodiversità, il Madagascar, un tempo con 200.000 specie di cui l’80 endemico, in pochi decenni ha ridotto la copertura forestale a meno dell’80 per cento. Con tutto ciò che ne consegue.

Non pensiate che tutto ciò non ci tocchi. Da un lato la perdita dei polmoni verdi del pianeta ci riguarda eccome, essendo tutti dipendenti dallo stesso ossigeno, dalla stessa terra e dalla stessa acqua. Dall’altro squilibri climatici, idrogeologici e catastrofi ambientali non potranno che avere come effetto un aumento sempre maggiore di profughi climatici: secondo un dossier di Legambiente già il numero di migranti ambientali nel 2015 ha superato quello dei profughi di guerra. Per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio paese.

Non è forse giunto il momento di dire basta a questa tragedia perpetuata da tutti noi? Prendiamoci le nostre responsabilità, teniamo fede agli impegni presi a Cop21 e impegniamoci seriamente per virare fin da subito verso l’unico futuro possibile, un futuro sostenibile.

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