Il cambiamento climatico ha iniziato a disegnare nuove carte geografiche, e il nostro pianeta potrebbe assumere un aspetto diverso da quello che conosciamo. Infatti, se nell’oceano Pacifico è prossima la sparizione di interi arcipelaghi, in altre parti del globo si assiste al fenomeno inverso: la comparsa di nuove isole. Come Uunartoq Qeqertoq, che in lingua Inuit significa “isola del riscaldamento”, a circa 650 km a nord del Circolo Polare Artico.
Comparsa pochi anni fa e ufficialmente inserita nelle mappe nel 2011, questa nuova isola è emersa dalle acque a causa dello scioglimento di importanti porzioni dei ghiacci della Groenlandia. Un “chiaro segnale dell’impatto del cambiamento climatico sulla calotta polare”, secondo il National Snow and Ice Data Center statunitense (Nsidc).
Ma mentre nel circolo polare artico emergono nuove terre, nei prossimi trent’anni gli oltre centomila abitanti dello Stato insulare di Kiribati, in Oceania, potrebbero invece traslocare su un’isola artificiale, una piattaforma galleggiante da oltre due miliardi di dollari, per sfuggire all’innalzamento del livello del mare.
Ad affermarlo era stato già alcuni anni fa il presidente della piccola repubblica, Anote Tong, durante il Pacific Islands Forum di Auckland, in Nuova Zelanda. Lì, i rappresentanti di Maldive e Tonga, di Tuvalu e Salomone, insieme a quelli delle isole Cook si erano trovati per discutere su come affrontare lo stesso incubo: ritrovarsi presto sommersi dall’oceano Pacifico, scomparendo dalle mappe.
Quando ha visto i modelli di queste strutture, come quelli nati dalle visioni futuristiche dell’architetto belga Vincent Callebaut che ha progettato Lilypad, “ecopolis” capace di ospitare decine di migliaia di persone, oltre che di prodursi da fonti rinnovabili l’energia di cui ha bisogno, Tong pensava di avere a che fare con qualcosa di fantascientifico, così moderno da chiedersi se la sua gente potesse veramente viverci. E la risposta che si è dato, alla fine, è stata “sì”!
Del resto, oltre all’eventualità di inabissarsi entro i prossimi tre decenni, i problemi per Kiribati si presentano già oggi a livello di spese: supera infatti il miliardo di dollari (Usa) la cifra che il piccolo Stato-isola dovrà sostenere per proteggere adeguatamente le sue infrastrutture dall’innalzamento delle acque marine. Servono soluzioni tecnologiche, dunque, ma anche finanziarie. Obiettivo non facile, soprattutto di questi tempi.
Cosa ci attende, in realtà?
È un po’ triste vedere che, come al solito, invece che andare alla radice del problema, cercando di ridurre tutto ciò che provoca il cambiamento climatico, ci si debba scervellare per trovare soluzioni che, per quanto affascinanti, fluttuano ancora fra utopia e realtà. Se non altro per i costi che comportano.
Nell’arco dei prossimi tre decenni, quindi, più che ad enormi investimenti in avveniristiche piattaforme galleggianti, ci si dovrà preparare a migrazioni ed evacuazioni di massa. Nel Pacifico, infatti, Australia e Nuova Zelanda valutano già la possibilità di dovere presto ospitare i Kiribatians e molti dei loro vicini. Persone che, in fuga dal mare, giungeranno in cerca di una nuova casa, dopo che la loro sarà stata inghiottita dalle acque.
Ed eccoci qui: a furia di non fare nulla, siamo giunti a un punto in cui l’adattamento è una necessità, non più una scelta.