Nucleare ISIN, nuove promesse da marinai
Nucleare ISIN, nuove promesse da marinai?
La risposta è sì e vi spiego perché.
L‘Italia, anche dopo avere scelto per ben due volte (1987 e 2011) di non costruire più centrali nucleari sul proprio territorio, è ben lungi dal non esporre i suoi cittadini ai rischi legati alla radioattività.
La gestione e il trasporto delle scorie radioattive generate in passato, così come la presenza di ordigni atomici (stranieri) sul proprio territorio, espone infatti i cittadini a una serie di pericoli evitabili.
In una società dominata dalla spettacolarizzazione degli eventi e tenuta in ostaggio dalla convinzione che i rischi che si corrono siano solo quelli di cui si parla in tv, è molto difficile credere che i danni alla salute, in un Paese denuclearizzato come il nostro, possano essere legati ai rifiuti radioattivi.
Ma purtroppo è così. L’Italia è infatti costellata di depositi di residui dalla radioattività più o meno elevata in zone alluvionabili, sismiche o addirittura a cielo aperto senza quasi essere controllati.
Nel Belpaese ci sono circa 350 aziende che producono quotidianamente rifiuti radianti, materiali provenienti dall’industria, dal settore sanitario (radioterapie), da quel che rimane della ricerca scientifica e, soprattutto, dal massiccio decommissioning in mano alla Sogin, la società (pubblica) responsabile dello smantellamento dei siti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi stessi.
Queste scorie, quantificate in oltre 100mila metri cubi, devono affrontare in Italia un problema in più, rispetto a molti altri Stati: la mancanza di un Deposito nazionale in cui essere gestite (smaltirle non è possibile) per un tempo decentemente lungo.
Non che questo possa risolvere la situazione (anche perché, in Italia, caso unico al mondo, ci sarebbe l’aggravante di ospitare contemporaneamente rifiuti sia ad alta che a bassa o media attività), ma avere un luogo preciso in cui stoccarle potrebbe almeno portare ad un maggiore controllo delle stesse.
Questo Deposito doveva essere costruito, per legge, entro il 31 dicembre 2008. Ovviamente così non è stato, e Sogin ha consegnato all’Ispra solamente il 3 gennaio 2015 la proposta di Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitarlo.
Lo farà davvero?
Oppure al ritardo enorme accumulato (l’imbarazzante decommissioning italiano è quantificato, al momento, in 45 anni) si potranno aggiungere altri lustri?
Che importa? Tanto a chi gestisce questo business il valore complessivo dello smantellamento degli impianti nucleari, già di circa 6,5 miliardi di euro (di cui 2,6 già andati e 3,9 da spendere fino al 2035, inclusi gli 1,5 miliardi per il famoso Deposito con tanto di “Parco tecnologico” annesso) sembra potere crescere all’infinito.
Il direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio, è intervenuto pubblicamente criticando le scelte a dir poco superficiali del governo in materia.
E si è fatto una domanda, che mi faccio anche io: perché prima di fare piani miliardari a lungo termine non risolviamo i problemi che minacciano la nostra sicurezza? Perché invece di continuare con le promesse da marinai non si svolgono compiti importanti come la cementazione dei rifiuti radioattivi liquidi depositati a Saluggia, in ritardo anche quella di 13 anni?
Attendiamo una risposta da Sogin, dal costituendo Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione (ISIN), dal Ministero dell’Ambiente, dal Ministero dello Sviluppo Economico, da Matteo Renzi.
Da chiunque, insomma, abbia la responsabilità o la competenza per di dirci qualcosa di chiaro.
Anche se, come sempre, la sensazione è che ce la dovremo trovare da soli.
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