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Sfruttamento minorile: la triste realtà dell’olio di palma “sostenibile”

Lavoro forzato, sfruttamento, anche minorile e assenza di diritti umani: per gli abitanti delle terre in cui crescono le palme da olio l’inferno è quotidiano. A niente servono certificazioni di sostenibilità, controlli (inesistenti) e garanzie di qualità. I numeri parlano chiaro: quello che Indonesia, Malesia e Singapore stanno perdendo non sono solo ettari di foresta, centinaia di specie animali o biodiversità. In gioco c’è il futuro di intere popolazioni indigene che rischiano di essere sterminate e di tante persone del luogo, sfrattate e sfruttate dalla ferocia di poche ma potenti multinazionali che hanno fatto di questa zona dell’Asia equatoriale la loro terra di conquista.

Deforestazione, incendi, land grabbing e sfruttamento del lavoro. Non ci sono aree protette che tengano in questi luoghi in cui non vi è alcuna legislazione in merito alla tutela dei diritti del lavoratore e dell’ambiente.

Secondo il rapporto Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti pubblicato da Amnesty International la maggior parte dell’olio di palma proveniente da queste zone è stato ottenuto attraverso lo sfruttamento del lavoro, anche minorile, e a fronte di gravi violazioni dei diritti umani.
Il rapporto è il risultato di un’indagine sulle piantagioni dell’Indonesia, appartenenti al più grande coltivatore mondiale di palme da olio, il gigante dell’agro-business Wilmar, fornitore di nove aziende mondiali. Di queste di queste nove, ben otto fanno parte del circuito RSPO, la certificazione per l’olio di palma sostenibile.

Proprio così: mentre da un lato le maggiori aziende al mondo tranquillizzano i consumatori di fare scelte etiche acquistando prodotti in cui si dichiara l’uso di olio di palma sostenibile, dall’altro continuano a chiudere gli occhi di fronte allo sfruttamento di milioni di lavoratori nelle loro stesse catene di fornitura. Bambini in primis, anche di soli otto anni, impiegati in attività pericolose, fisicamente logoranti, obbligati a trasportare sacchi di frutti della palma che possono pesare dai 12 ai 25 chili e molto spesso costretti ad abbandonare la scuola per aiutare i genitori nelle piantagioni, quando questi non riescono a rispettare gli obiettivi di produzione. Sempre più alti, sempre più difficili da raggiungere.

Donne e uomini sfruttati all’inverosimile, ridotti a lavorare molte ore per una paga che ammonta a soli 2,50 dollari al giorno.

Tutti lavoratori senza diritti, assicurazione sanitaria, trattamenti pensionistici o tutele sul luogo di lavoro, basti pensare che molti di loro vengono quotidianamente intossicati gravemente da agenti chimici altamente tossici vietati in Europa ma usati nelle piantagioni. Tra questi il Paraquat, un pesticida fatale se ingerito, legato a diversi problemi di salute a lungo termine, tra cui insufficienza renale e respiratoria, cancro della pelle e morbo di Parkinson, ma comunque consentito dagli standard RSPO (questa sostanza oltretutto può residuare anche nel prodotto finale).

Più aumenta il consumo di olio di palma più queste violenze si fanno atroci. I lavoratori sono costretti a lavorare sempre più lungo, anche a costo di gravi sofferenze fisiche, per raggiungere obiettivi di produzione sempre più elevati. Se non li raggiungono vengono multati o costretti a lavorare ore aggiuntive senza essere pagati.

E non si tratta certo di casi isolati. In Paesi in cui le autorità locali continuano a preferire le monocolture alla tutela della foresta pluviale e dei suoi abitanti per ragioni di convenienza economica e la corruzione raggiunge livelli altissimi questo sfruttamento non può che essere la norma. Qui a farla da padrone sono gli interessi di lobby e multinazionali occidentali e i risultati sono sotto gli occhi di tutti coloro che li vogliono vedere.

Ma c’è chi continua a girarsi dall’altra parte. Basti pensare che l’olio di palma proveniente da tre delle cinque piantagioni indonesiane su cui Amnesty International ha indagato è stato certificato come “sostenibile” dal Tavolo sull’olio di palma sostenibile (RSPO), l’organismo istituito nel 2004 che per dodici anni ha funto da foglia di fico dietro cui nascondere questi orrori.
Secondo Seema Joshi, direttrice del programma Imprese e diritti umani di Amnesty International, il rapporto “mostra chiaramente che le aziende usano quell’organismo come uno scudo per evitare controlli. Sulla carta hanno ottime politiche, ma nessuna ha potuto dimostrare di aver identificato rischi di violazioni nella catena di fornitura”.

Questa è la realtà che si nasconde dietro l’olio di palma, una sostanza che permette alle multinazionali di guadagnare miliardi devastando l’ambiente e sfruttando i lavoratori, senza alcun controllo credibile della filiera e senza alcuna reale garanzia che vengano rispettati neanche i diritti umani essenziali. Per cosa? Per produrre merendine, creme, dolci e snack, cosmetici e detergenti, per i consumatori occidentali, per fortuna sempre meno ignari, sempre più consapevoli della tragedia che sta consumando questi Paesi e i loro popoli.  

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